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The Digital Transformation Playbook di David Rogers (2016)

The Digital Transformation Playbook di David Rogers (di seguito: Rogers 2016), docente alla Columbia di New York, formatore e consulente, è stato pubblicato ad aprile del 2016 (sono in debito con Fabio Paracchini @fcvg per averlo letto: me lo ha passato in un intonso formato hardcover). Che io sappia, è il secondo libro importante a offrire un quadro generale e completo sul tema, dopo Leading Digital di George Westerman, Didier Bonnet e Andrew McAfee, uscito nel 2014 (di seguito: WBM 2014), del quale ho scritto oltre un anno fa. La cadenza piuttosto rara di queste opere mi lascia perplesso. Provo a spiegare meglio. Gli studi e gli articoli sulle relazioni tra tecnologia, business e società sono infiniti, ma i lavori nei quali si mette a fuoco in modo preciso il fenomeno noto appunto come “Digital Transformation”, definendone confini, origini ed evoluzione, mi sembrano pochi. Eppure l’espressione è diventata molto diffusa. È probabile che mi sia sfuggito questo o quello. Grazie a chi darà indicazioni.

Rogers 2016 è costruito in modo diverso rispetto a WBM 2014. In quest’ultimo caso gli autori sono partiti da due cicli di ricerca di base, svolti con il supporto di diversi collaboratori, e poi hanno elaborato un modello interpretativo sulla base dei dati raccolti. La genesi di Rogers 2016 è più articolata. Il punto di partenza è stato un lavoro precedente dello stesso autore sull’evoluzione del comportamento delle persone e dei consumatori (non l’ho letto purtroppo: The Network Is Your Customer: Five Strategies to Thrive in a Digital Age, 2011, vedi per es. su Google Books). A seguire Rogers ha attinto da una serie di testimonianze di prima mano, raccolte grazie alla sua attività di formatore e consulente. Inoltre ha rielaborato una quantità di studi accademici, articoli giornalistici, report di analisti e post, tutti citati con rigore nel ricco apparato di note.

Uno dei contributi preziosi e importanti di Rogers 2016 consiste nell’aver identificato una serie di casi che mostrano cosa vuol dire affrontare la “trasformazione digitale” per le aziende nate prima della diffusione di Internet. L’analisi parte dall’identificazione di cinque princìpi o domini strategici: clienti, competizione, dati, innovazione e valore. Tenuti fermi questi ambiti, le modalità d’azione variano molto tra una start-up di recente fondazione, finanziata con capitale di rischio, e una società già consolidata in termini di infrastrutture, canali di vendita, collaboratori e cultura organizzativa. Eppure entrambe queste grandi categorie d’imprese devono trasformarsi secondo “i principi dell’età digitale”. Da questo punto di vista Rogers 2016 presenta un punto di vista analogo a WBM 2014, che pure guarda in modo primario alle aziende che non sono nate o non sono incentrate sulle tecnologie digitali, ma a esse devono fare ricorso, dato che lo fanno in modo in ogni caso i loro clienti e collaboratori. Per questo motivo credo che anche la lettura di Rogers 2016, come quella di WBM 2014, sia una lettura obbligatoria per chi offre servizi e tecnologia alle aziende “tradizionali” o aziende “clienti”: agenzie, consulenti, piattaforme e soluzioni, siano essi player globali o specialisti locali, grandi corporation o freelance indipendenti.

Dicevo che la discussione dei casi è uno degli aspetti più interessanti di Rogers 2016. Persino un’azienda con 244 anni di storia come l’Enciclopedia Britannica può intraprendere con successo un percorso di “trasformazione digitale”. La Britannica, un tempo dipendente in modo esclusivo dalla vendita della grande opera cartacea, si è reinventata diventando un leader della formazione per il mercato dell’educazione. Lo ha fatto trovando un nuovo equilibrio tra un’antica anima scientifica e un modo di operare diverso e in continuo movimento. Un altro caso di trasformazione profonda è quello di The Weather Channel. Da media company specializzata nelle previsioni meteo, che elabora dati su base quotidiana per le proprie necessità operative, The Weather Channel scopre di possedere in questo asset e in queste competenze una fonte d’innovazione e vantaggio competitivo. The Weather Channel sviluppa così un’offerta di nuovi servizi in una varietà di ambiti industriali per i quali modelli e previsioni legate al meteo hanno un valore strategico, facendo dei dati il perno del cambiamento (la società è stata acquisita da IBM nel 2015; nei mesi scorsi Big Blue ha annunciato un nuovo servizio di previsioni “iperlocali”).

“per ogni Britannica c’è una Kodak o una Blockbuster”

D’altro canto Rogers 2016 avverte che “per ogni Britannica c’è una Kodak o una Blockbuster”, ossia una società che rifiuta di riconoscere le “nuove regole del gioco”, evitando di affrontare il riorientamento strategico richiesto dalla realtà digitale. Anche qui risuona il monito sull’inevitabilità del cambiamento espresso da WBM 2014 e temo fin troppo ovvio per chi lavora in agenzia o in consulenza. Mi chiedo infatti se questi avvertimenti risuonano come devono, se producono l’effetto desiderato o meno. Forse siamo in una fase di transizione nella quale molte aziende preferiscono affrontare il tema con prudenza, incoraggiate magari dal non essere state ancora aggredite da un nuovo player con una tecnologia e un modello dirompente. Va da sé che si tratta di considerazioni da fare Paese per Paese e mercato per mercato.

Un altro contributo centrale e caratteristico di Rogers 2016 è rappresentato da una serie di tool di pianificazione strategica, nei quali si fondono taglio scientifico ed esperienza diretta di consulenza, essendo stati modellati sulla base dei workshop condotti di persona dall’autore. Gli ambiti sono molto diversi: si va dall’ideazione al “mapping” (virgolette per non tradurre) alla pianificazione; si tratta di modelli d’analisi che possano guidare un team nel definire una conclusione chiara e argomentata in modo condiviso, sfruttando una struttura concepita con rigore. Questo è anche il cuore del libro come “playbook”, inteso come set di strumenti di lavoro da mettere in pratica, cercando il tool più adatto alla situazione.

Un ulteriore contributo secondo me originale e nuovo di Rogers 2016 è costituito dalla discussione sul concetto di “disruptive innovation” elaborato da Clayton Christensen, sulle tracce della “distruzione creativa” di Schumpeter. Intanto Rogers precisa di cosa si sta parlando con una definizione – più che mai utile per un’espressione che è divenuta una buzzword, pure difficile da rendere in italiano. “Disruption” non vuol dire “estremamente innovativo”; un’impresa, un prodotto o un servizio sono “disruptive” quando sono in grado di offrire un valore nuovo e importante sul mercato, grazie a un modello di business che i concorrenti tradizionali non riescono a replicare. Questo non significa che innovazioni straordinarie prive del carattere “disruptive” siano di minor valore: la dinamica però che sviluppano sul mercato è diversa. Magari aprono settori di business inesplorati, ma non per questo mettono in crisi i concorrenti tradizionali, come accade invece nei casi di “disruptive innovation”. Fatta chiarezza, Rogers affronta una disamina della teoria di Christensen, secondo la quale gli innovatori “disruptive” spiazzano i concorrenti tradizionali aprendo nuovi mercati disponibili ad accettare soluzioni inizialmente meno robuste e più economiche, rese possibili da una soluzione tecnologica inedita. Da lì in avanti lavorano per migliorarle fino a renderle mature e di maggiore valore rispetto a quelle offerte dagli attori già consolidati. Tuttavia, dando credito per l’intuizione a Ben Thompson, tra i più interessanti analisti indipendenti (qui il suo sito), Rogers osserva che la teoria di Christensen cattura le dinamiche tipiche delle relazioni B2B, ma non spiega quei casi dove sono i comportamenti dei consumatori finali a determinare il successo o il fallimento di un’iniziativa. Un prodotto come iPhone (o meglio, un sistema di prodotto-servizio come iPhone) si è affermato contro quelli del concorrente dominante esibendo qualità e prezzo superiore, con un approccio molto diverso rispetto a quanto ipotizzato nel modello di Christensen. Non c’è stato alcuno sconto di prezzo e l’esperienza complessiva è sempre stata superiore, tanto da risultare un successo tra i clienti di quelli che allora erano i clienti dei migliori modelli di Nokia. L’innovazione “di rottura” introdotta da Apple ha portato insomma un valore inedito ai consumatori e allo stesso tempo è risultata impossibile da replicare nell’immediato da parte del concorrente dominante. Per spiegare questo sviluppo, Rogers propone una teoria della “business disruption” che a suo avviso rende il modello di Christensen un caso particolare del suo approccio, utilizzando il linguaggio e gli schemi concettuali della teoria dei modelli di business. Semplificando la struttura di un business model ai due elementi centrali della “value proposition” e del “value network”, Rogers considera che ci sia “disruptive innovation” quando un’impresa realizza un cambiamento radicale in entrambe le dimensioni, combinate in un unico sistema. A sostegno della sua argomentazione, Rogers si esercita nella disamina di tre casi celebri. Oltre ad Apple vs. Nokia discute Netflix vs. Blockbuster e Luxottica vs. Warby Parker. Questo terzo esempio di rottura “still ongoing” potrebbe incuriosire ancora di più il lettore italiano, visto che si parla di una delle più grandi multinazionali con radici locali. Sono pagine molto attuali e leggibili, che illustrano bene come i modelli e le considerazioni teoriche descritte nel libro diventano vicende d’impresa.

Un ultimo punto purtroppo solo accennato riguarda il ruolo delle agenzie, e più in generale dei consulenti che lavorano con le aziende. Discutendo delle competenze necessarie a porsi in relazione con i nuovi comportamenti in rete di persone e consumatori, Rogers scrive che affidarsi all’outsourcing fornito dalle agenzie sarebbe un grave errore di miopia, dato che le organizzazioni sono arrivate a una svolta che rende queste capacità essenziali per il loro sviluppo futuro. D’altro canto Rogers è pronto a riconoscere il lavoro delle agenzie e dei consulenti dove se ne presenta l’occasione. Nel discutere le logiche della prototipazione rapida l’autore richiama per esempio il caso di R/GA con una citazione di John Mayo-Smith, ex CTO. Per un partner impegnato sui progetti più innovativi di Nike come R/GA era essenziale riuscire a “costruire qualcosa” anche in due settimane, per cominciare a mostrare un primo risultato agli atleti e raccogliere il loro feedback. In questo caso la relazione tra agenzie e azienda era quindi virtuosa, con la prima che non solo offriva un contributo operativo di valore, ma trasmetteva la cultura di un nuovo modo di agire, modellato sul digitale. È un punto importante, non solo per me come professional che lavora in un’agenzia. Le capacità e le tecnologie che stanno facendo la storia dei cambiamenti in corso sono molto distribuite: come detto sopra, si va dai grandi protagonisti delle piattaforme globali, con le loro dinamiche uniche (GAFA e altri leader paragonabili) ai molti fornitori di soluzioni applicative e infrastrutturali, dalle grandi holding di servizi di comunicazione e consulenza agli innumerevoli indipendenti. Questa stessa costellazione di attori a mio avviso è un vero “value network”, diverso da azienda ad azienda, ed è quindi un aspetto non secondario del modello di business con cui opera. L’esame di queste dinamiche attende un esame rigoroso ed esteso e una ricerca di casi esemplari. Rogers 2016, come WBM 2014, offre strumenti preziosi e lascia spazio a chi vorrà avviare questo lavoro.

Registro qui in appendice un’altra recensione di Rogers 2016: Kathy Anne Cowie, “Book Review—Inspiring Transformation for Decades to Come”, Global Business and Organizational Excellence, July/August 2016; è un contenuto a pagamento o consultabile solo con uno degli abbonamenti per accademici o biblioteche; io l’ho acquistato via Readcube.