I “cattivi argomenti” sono quelli che non stanno in piedi dal punto di vista logico, e pure quelli che derivano da meccanismi cognitivi osservati dagli psicologi. Si sperimentano di continuo, penso. Io faccio la mia parte, e voi la vostra. Nella nobile tradizione della filosofia si studiano da tempo – ironico forse scriverlo oggi mentre i giornali dicono che la si vuole togliere di mezzo o ridurla nella formazione liceale e universitaria – vedi qui sotto, dal Corriere di domenica (letto su carta, archiviato mentalmente con fastidio e poi ritrovato online via Adriano Solidoro, @a_solid).
Alberto D’Ottavi mi ha suonato la sveglia 😉 con un tweet… mi precipito a pubblicare qualcosa rovistando dal cassetto delle bozze, come uno scolaretto preso in castagna.
Ho messo assieme poche slide sul tema per le lezioni in NABA. Mi riferisco spesso a questo “imbuto” per parlare di processo e metodi ma mi mancava un riferimento scritto. La rappresentazione analitica più efficace l’ho trovata in Buxton, Sketching User Experiences, p. 144, dove riprende lo schema di Laseau, Graphic Thinking for Architects and Designers, già finito nella wish list di Amazon. Buxton discute del funnel anche rispetto al ruolo di sketch e prototipi nel processo di progetto, e anche da altri punti di vista, ma qui mi sono limitato alla combinazione incrociata tra una fase “divergente” e una “convergente”. Lo schema classico di Jones resta sottotraccia come un riferimento essenziale, anche se in effetti la terminologia specifica di Jones non si è diffusa.
Una domanda a cui ora non saprei rispondere è sull’origine dell’espressione. Chi ha parlato per primo di un “design funnel”? Chi ha pensato al funnel per esprimere e rappresentare il processo del progetto? (Sì, ho guardato su Wikipedia, forse non abbastanza).
Questo l’ho scritto per Infoservi, dove fa mostra di sé con un titolo appena un poco più giornalistico.
Segrate non è proprio in cima alla lista delle design location milanesi, giusto? Uno pensa al glamour di via Tortona, alle vele della nuova fiera, a certi spazi lussuosi di zona 1. Però a Segrate ci sono un po’ di aziende. Una di queste è Microsoft Italia. Intorno è tutto terziario e industriale; un paesaggio non molto bucolico, specie con la nebbiolina dell’inverno. Dalla strada che porta lì si vedono le forme sempre più grigie del grande palazzo Mondadori, quello di Oscar Niemeyer — uno stacco netto, che piaccia o meno: in mezzo a quei prefabbricati anonimi, sembra l’ultima impronta lasciata da una civiltà superiore.
Microsoft lo scorso novembre ha promosso e ospitato un workshop intitolato “Interaction Design @ Microsoft Research”, per far meglio conoscere la “visione [dell’azienda] sull’evoluzione delle tecnologie di Interaction Design attualmente oggetto di ricerca e sviluppo nei laboratori di Microsoft Research”. Il workshop rientrava nel programma dei Faculty Days, iniziativa più ampia per gli scambi con il mondo accademico. Io ero lì con il doppio cappello di NABA, Scuola di Media Design e Arti Multimediali, dove insegno ormai da qualche anno un corso di metodologia, e con quello di Infoservi, grazie all’invito indirizzato in precedenza ad Alberto (che pure insegna in NABA) e Francesco Monico, direttore della Scuola, da parte di Roberto Cavallini e Mauro Minella di Microsoft,
Nell’auditorium a dire il vero non eravamo in molti, ma quasi tutti hanno seguito i lavori dall’inizio alla fine e le conversazioni durante le pause, almeno per me, sono state fitte ed eccellenti. Buona parte della giornata è stata spesa nella presentazione di alcune tecnologie e strumenti Microsoft nel dominio della creatività e del design: di mio ho trovato interessante soprattutto l’introduzione a SketchFlow di Roberto, ma si è parlato anche parecchio di Blend e soprattutto di Silverlight, dove come sanno anche i sassi da tempo Microsoft sta proponendo un’alternativa al numero uno in questo spazio, Flash di Adobe. Dicevamo però di interaction design e Microsoft Research. Bisogna dare credito qui agli organizzatori per aver aperto una finestra su pratiche, metodi e processi di progetto diventati un riferimento nel contesto internazionale, ma purtroppo molto meno frequentati dalle nostre parti (e sì, è difficile trovarne traccia anche nella Milano “capitale del design”, come disse con grande cortesia Bill Moggridge quando passò in Mediateca per Meet the Media Guru, recensito sempre qui su Infoservi).
In rappresentanza di Microsoft Research ha parlato quindi Richard Banks, di stanza a Cambridge, UK, dove c’è l’unico polo europeo della struttura globale di R&D dell’azienda. Un centinaio di persone sulle duemila totali impiegate nel mondo. Di queste cento, ha spiegato Richard, la maggior parte lavora su problemi di pura (“hard core”) computer science, mentre un buon quarto, al quale appartiene lui stesso, si colloca in un ambito ibrido, una combinazione di ricerca sociale, psicologia e design, dove per design si intende appunto “interaction design”. Penso sia meglio precisare, col rischio di sembrare pedantii: nel mondo accademico e nella pratica professionale non c’è ancora un accordo granitico sulle definizioni e sui confini esatti di questo dominio. Non ci mettiamo a imbastire qui la discussione teorica. Chi volesse una traccia autorevole sul punto potrebbe partire per esempio dalle prime pagine di Theories and Practice in Interaction Design, co-editato da Gilliam Crampton Smith, tra l’altro presente al workshop (oggi è allo IUAV, dopo l’esperienza all’Interaction Design Institute di Ivrea). Durante la pausa ho trovato il modo di chiacchierare un po’ con lei di design, design research e interaction design in Italia.
Dicevamo dell’intervento di Richard Banks. Pur essendosi assegnato il compito di offrire soltanto una cornice e un rimando (“grounding”) al resto delle presentazioni previste nella giornata, molto più orientate ai prodotti, Richard ha aperto un bello squarcio su alcune delle ricerche in corso nel suo gruppo, dando dimostrazione di come si può articolare il nesso tra design e ricerca nello sviluppo delle tecnologie. Dal punto di vista culturale, è il mondo descritto magistralmente da Bill Buxton inSketching User Experiences, uscito nel 2007 e già diventato un titolo importante nella migliore divulgazione sul tema. Buxton è entrato in Microsoft Research in tempi abbastanza recenti, dopo una lunga carriera di ricercatore sulle interfacce sviluppata tra università di Toronto, Xerox PARC, SGI e Alias Wavefront. I metodi e i casi raccontati nel suo libro, a voler cercare una formula, mostrano che l’essenza esplorativa, visuale e generativa del design tradizionale può evolvere in un insieme di modelli e di tecniche adatti a progettare interazioni, media e “intangibili”, per dirla con John Chris Jones (per inciso, il nume tutelare del mio corso in NABA). Come ovvio qui il discorso va oltre le dimensioni pur gigantesche di Microsoft: uno dei casi di studio più ampiamente illustrati nel libro di Buxton, acclamato in quarta di copertina nientemeno che da Bill Gates, riguarda l’evoluzione della user inteface dell’iPod…
I progetti su cui si è soffermato più a lungo Richard hanno a che fare con la fotografia digitale, la memoria personale e familiare, compresa quella delle persone che sono mancate. Una scelta originale e interesante, credo. Le applicazioni e i servizi digitali straripano di cose utili, divertenti o inutili, ma alle volte sono lontane dagli affetti o dai dolori più forti della vita quotidiana, come quello del lutto. Le persone, ha sottolineato Richard, sono già parte di ecologie complesse e pre-esistenti rispetto alle tecnologie, con le quali entrano poi in relazioni di reciproca influenza (Buxton, aggiungo io, ha scritto che “technologies are adapted, not adopted”). Si tratta di comprendere le persone dal loro punto di vista (Richard: “understanding users in human terms”, e non in “machine terms”), per poi mettere a fuoco idee e opportunità di progetto. Nel caso della fotografia, la domanda di fondo è quindi sul “futuro della memoria” (“the future of looking back”). Pensiamo alla tradizione della fotografie di famiglia, delle immagini fatte per conservare un ricordo. In molte case, spesso in una posizione di rispetto, magari in sala, c’è un classico ritratto di famiglia. Cosa potrebbe diventare il ritratto di famiglia nell’età di Flickr e dei Social Network?
Un prototipo mostrato da Richard, sviluppato attorno alle fotografie del padre, offre un’interfaccia che esplora a più livelli la storia personale, quella familiare e la storia generale degli avvenimenti, pubblici, politici, economici e culturali. Le foto analogiche ereditate dal figlio, una volta digitalizzate, si arricchiscono attraverso le associazioni con altre immagini e storie che ne costituiscono il contesto. In un’altra vista sulla sperimentazione il focus è sulla modalità di interazione. Un’interfaccia multitouch (credo via Surface) permette di manipolare le immagini come se fossero raccolte in una serie di box, per analogia con le scatole delle foto stampate. Un altro prototipo mostra le possibilità di esplorare un ambiente andato distrutto o disperso, come uno studio personale o un garage degli attrezzi, combinando in un oggetto 3D una serie di immagini scattate fintantoché era ancora integro, per esempio nello stato in cui era quando la persona venuta a mancare lo viveva quotidianamente. Nelle parole di Richard, questi artefatti sono “eredità tecnologiche” (“technology heirlooms”), emergenti nell’uso quotidiano ma con ampie possibilità di cambiamento, indagine, invenzione.
Sono soltanto esempi, come si capisce. Come e quando diventeranno prodotti e tecnologie per tutti è un’altra storia. Ma danno un’idea del tipo di ricerca possibile su persone, società e interazione. Due o tre segnalazioni in chiusura per chi volesse approfondire: il newsfeed di Microsoft Research (dove si parla di R&D in generale, non solo interaction design), il sito personale di Bill Buxton (con molti articoli e video) e per la generazione più giovane il nome celebre, ben meritato, di danah boyd, sempre ricercatrice a Microsoft Research, non UK ma New England — btw, a quando Microsoft Research Milano?
Ah, la domanda topica che risuona troppe volte nelle sale focus: “che cosa vorresti?” Sguardo smarrito dei “soggetti” più sinceri, o logorrea improvvisa nei casi peggiori. “Chiedere ai clienti cosa vogliono”, specie quando si parla di cose future, non è detto che sia un’idea brillante. Basta il senso comune per capire che è difficile anticipare la forma o il razionale di un nuovo prodotto o servizio, specie se si cerca una grande novità, una rottura (disruptive innovation nel gergo… wow). Fare “design research”, fare ricerca per il progetto, e coinvolgere le persone in questa ricerca, *non* vuol dire questo. Un articolo di un’accademica appena uscito sul New York Times fa il punto sulla faccenda. L’ho trovato da Bruce Nussbaum, che lo riprende puntando anche al breve saggio già molto discusso di Donald Norman su innovazione radicale, design research e tecnologia. Vedi il post in inglese.
Brian Eno, insieme al pittore Peter Schmidt, ha creato un mazzo di 100 carte per aiutare a risolvere le crisi creative.”Strategie Oblique” è disponibile in 5 edizioni di cui ben 4 sono disponibili per la consultazione online
Le reinterpretazioni delle carte da gioco per scopi pratici mi interessano molto. Queste non le conoscevo. Qui il riferimento non è tanto al progetto (al design) ma alla creatività in generale, anche se in effetti il primo riferimento è pur sempre al mondo del progetto, almeno di tipo artistico. Di mio ho in mente le famose Ideo Method Cards, che per certi versi hanno forse una natura più ibrida, un po’ reference sui metodi e un po’ forse fonte di ispirazione su quali direzioni prendere, magari in una ricerca (i metodi del resto sono solo accennati: ricordo che in un workshop a PDC 2006 qualcuno lamentò che era molto difficile usarle con gli studenti). Guarderò meglio e magari mi procurerò le carte di Eno e Schmidt. Se si vuole sono una sorta di “serious game”.
Ps: masayume ha un sacco di cose notevoli tra l’altro su illustrazione giapponese e dintorni.
Digital, UX, design research. Libri, letture. Un po' di filosofia qui e là. Qualcosa di personale, a volte, se è pubblico.