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The Digital Transformation Playbook di David Rogers (2016)

The Digital Transformation Playbook di David Rogers (di seguito: Rogers 2016), docente alla Columbia di New York, formatore e consulente, è stato pubblicato ad aprile del 2016 (sono in debito con Fabio Paracchini @fcvg per averlo letto: me lo ha passato in un intonso formato hardcover). Che io sappia, è il secondo libro importante a offrire un quadro generale e completo sul tema, dopo Leading Digital di George Westerman, Didier Bonnet e Andrew McAfee, uscito nel 2014 (di seguito: WBM 2014), del quale ho scritto oltre un anno fa. La cadenza piuttosto rara di queste opere mi lascia perplesso. Provo a spiegare meglio. Gli studi e gli articoli sulle relazioni tra tecnologia, business e società sono infiniti, ma i lavori nei quali si mette a fuoco in modo preciso il fenomeno noto appunto come “Digital Transformation”, definendone confini, origini ed evoluzione, mi sembrano pochi. Eppure l’espressione è diventata molto diffusa. È probabile che mi sia sfuggito questo o quello. Grazie a chi darà indicazioni.

Rogers 2016 è costruito in modo diverso rispetto a WBM 2014. In quest’ultimo caso gli autori sono partiti da due cicli di ricerca di base, svolti con il supporto di diversi collaboratori, e poi hanno elaborato un modello interpretativo sulla base dei dati raccolti. La genesi di Rogers 2016 è più articolata. Il punto di partenza è stato un lavoro precedente dello stesso autore sull’evoluzione del comportamento delle persone e dei consumatori (non l’ho letto purtroppo: The Network Is Your Customer: Five Strategies to Thrive in a Digital Age, 2011, vedi per es. su Google Books). A seguire Rogers ha attinto da una serie di testimonianze di prima mano, raccolte grazie alla sua attività di formatore e consulente. Inoltre ha rielaborato una quantità di studi accademici, articoli giornalistici, report di analisti e post, tutti citati con rigore nel ricco apparato di note.

Uno dei contributi preziosi e importanti di Rogers 2016 consiste nell’aver identificato una serie di casi che mostrano cosa vuol dire affrontare la “trasformazione digitale” per le aziende nate prima della diffusione di Internet. L’analisi parte dall’identificazione di cinque princìpi o domini strategici: clienti, competizione, dati, innovazione e valore. Tenuti fermi questi ambiti, le modalità d’azione variano molto tra una start-up di recente fondazione, finanziata con capitale di rischio, e una società già consolidata in termini di infrastrutture, canali di vendita, collaboratori e cultura organizzativa. Eppure entrambe queste grandi categorie d’imprese devono trasformarsi secondo “i principi dell’età digitale”. Da questo punto di vista Rogers 2016 presenta un punto di vista analogo a WBM 2014, che pure guarda in modo primario alle aziende che non sono nate o non sono incentrate sulle tecnologie digitali, ma a esse devono fare ricorso, dato che lo fanno in modo in ogni caso i loro clienti e collaboratori. Per questo motivo credo che anche la lettura di Rogers 2016, come quella di WBM 2014, sia una lettura obbligatoria per chi offre servizi e tecnologia alle aziende “tradizionali” o aziende “clienti”: agenzie, consulenti, piattaforme e soluzioni, siano essi player globali o specialisti locali, grandi corporation o freelance indipendenti.

Dicevo che la discussione dei casi è uno degli aspetti più interessanti di Rogers 2016. Persino un’azienda con 244 anni di storia come l’Enciclopedia Britannica può intraprendere con successo un percorso di “trasformazione digitale”. La Britannica, un tempo dipendente in modo esclusivo dalla vendita della grande opera cartacea, si è reinventata diventando un leader della formazione per il mercato dell’educazione. Lo ha fatto trovando un nuovo equilibrio tra un’antica anima scientifica e un modo di operare diverso e in continuo movimento. Un altro caso di trasformazione profonda è quello di The Weather Channel. Da media company specializzata nelle previsioni meteo, che elabora dati su base quotidiana per le proprie necessità operative, The Weather Channel scopre di possedere in questo asset e in queste competenze una fonte d’innovazione e vantaggio competitivo. The Weather Channel sviluppa così un’offerta di nuovi servizi in una varietà di ambiti industriali per i quali modelli e previsioni legate al meteo hanno un valore strategico, facendo dei dati il perno del cambiamento (la società è stata acquisita da IBM nel 2015; nei mesi scorsi Big Blue ha annunciato un nuovo servizio di previsioni “iperlocali”).

“per ogni Britannica c’è una Kodak o una Blockbuster”

D’altro canto Rogers 2016 avverte che “per ogni Britannica c’è una Kodak o una Blockbuster”, ossia una società che rifiuta di riconoscere le “nuove regole del gioco”, evitando di affrontare il riorientamento strategico richiesto dalla realtà digitale. Anche qui risuona il monito sull’inevitabilità del cambiamento espresso da WBM 2014 e temo fin troppo ovvio per chi lavora in agenzia o in consulenza. Mi chiedo infatti se questi avvertimenti risuonano come devono, se producono l’effetto desiderato o meno. Forse siamo in una fase di transizione nella quale molte aziende preferiscono affrontare il tema con prudenza, incoraggiate magari dal non essere state ancora aggredite da un nuovo player con una tecnologia e un modello dirompente. Va da sé che si tratta di considerazioni da fare Paese per Paese e mercato per mercato.

Un altro contributo centrale e caratteristico di Rogers 2016 è rappresentato da una serie di tool di pianificazione strategica, nei quali si fondono taglio scientifico ed esperienza diretta di consulenza, essendo stati modellati sulla base dei workshop condotti di persona dall’autore. Gli ambiti sono molto diversi: si va dall’ideazione al “mapping” (virgolette per non tradurre) alla pianificazione; si tratta di modelli d’analisi che possano guidare un team nel definire una conclusione chiara e argomentata in modo condiviso, sfruttando una struttura concepita con rigore. Questo è anche il cuore del libro come “playbook”, inteso come set di strumenti di lavoro da mettere in pratica, cercando il tool più adatto alla situazione.

Un ulteriore contributo secondo me originale e nuovo di Rogers 2016 è costituito dalla discussione sul concetto di “disruptive innovation” elaborato da Clayton Christensen, sulle tracce della “distruzione creativa” di Schumpeter. Intanto Rogers precisa di cosa si sta parlando con una definizione – più che mai utile per un’espressione che è divenuta una buzzword, pure difficile da rendere in italiano. “Disruption” non vuol dire “estremamente innovativo”; un’impresa, un prodotto o un servizio sono “disruptive” quando sono in grado di offrire un valore nuovo e importante sul mercato, grazie a un modello di business che i concorrenti tradizionali non riescono a replicare. Questo non significa che innovazioni straordinarie prive del carattere “disruptive” siano di minor valore: la dinamica però che sviluppano sul mercato è diversa. Magari aprono settori di business inesplorati, ma non per questo mettono in crisi i concorrenti tradizionali, come accade invece nei casi di “disruptive innovation”. Fatta chiarezza, Rogers affronta una disamina della teoria di Christensen, secondo la quale gli innovatori “disruptive” spiazzano i concorrenti tradizionali aprendo nuovi mercati disponibili ad accettare soluzioni inizialmente meno robuste e più economiche, rese possibili da una soluzione tecnologica inedita. Da lì in avanti lavorano per migliorarle fino a renderle mature e di maggiore valore rispetto a quelle offerte dagli attori già consolidati. Tuttavia, dando credito per l’intuizione a Ben Thompson, tra i più interessanti analisti indipendenti (qui il suo sito), Rogers osserva che la teoria di Christensen cattura le dinamiche tipiche delle relazioni B2B, ma non spiega quei casi dove sono i comportamenti dei consumatori finali a determinare il successo o il fallimento di un’iniziativa. Un prodotto come iPhone (o meglio, un sistema di prodotto-servizio come iPhone) si è affermato contro quelli del concorrente dominante esibendo qualità e prezzo superiore, con un approccio molto diverso rispetto a quanto ipotizzato nel modello di Christensen. Non c’è stato alcuno sconto di prezzo e l’esperienza complessiva è sempre stata superiore, tanto da risultare un successo tra i clienti di quelli che allora erano i clienti dei migliori modelli di Nokia. L’innovazione “di rottura” introdotta da Apple ha portato insomma un valore inedito ai consumatori e allo stesso tempo è risultata impossibile da replicare nell’immediato da parte del concorrente dominante. Per spiegare questo sviluppo, Rogers propone una teoria della “business disruption” che a suo avviso rende il modello di Christensen un caso particolare del suo approccio, utilizzando il linguaggio e gli schemi concettuali della teoria dei modelli di business. Semplificando la struttura di un business model ai due elementi centrali della “value proposition” e del “value network”, Rogers considera che ci sia “disruptive innovation” quando un’impresa realizza un cambiamento radicale in entrambe le dimensioni, combinate in un unico sistema. A sostegno della sua argomentazione, Rogers si esercita nella disamina di tre casi celebri. Oltre ad Apple vs. Nokia discute Netflix vs. Blockbuster e Luxottica vs. Warby Parker. Questo terzo esempio di rottura “still ongoing” potrebbe incuriosire ancora di più il lettore italiano, visto che si parla di una delle più grandi multinazionali con radici locali. Sono pagine molto attuali e leggibili, che illustrano bene come i modelli e le considerazioni teoriche descritte nel libro diventano vicende d’impresa.

Un ultimo punto purtroppo solo accennato riguarda il ruolo delle agenzie, e più in generale dei consulenti che lavorano con le aziende. Discutendo delle competenze necessarie a porsi in relazione con i nuovi comportamenti in rete di persone e consumatori, Rogers scrive che affidarsi all’outsourcing fornito dalle agenzie sarebbe un grave errore di miopia, dato che le organizzazioni sono arrivate a una svolta che rende queste capacità essenziali per il loro sviluppo futuro. D’altro canto Rogers è pronto a riconoscere il lavoro delle agenzie e dei consulenti dove se ne presenta l’occasione. Nel discutere le logiche della prototipazione rapida l’autore richiama per esempio il caso di R/GA con una citazione di John Mayo-Smith, ex CTO. Per un partner impegnato sui progetti più innovativi di Nike come R/GA era essenziale riuscire a “costruire qualcosa” anche in due settimane, per cominciare a mostrare un primo risultato agli atleti e raccogliere il loro feedback. In questo caso la relazione tra agenzie e azienda era quindi virtuosa, con la prima che non solo offriva un contributo operativo di valore, ma trasmetteva la cultura di un nuovo modo di agire, modellato sul digitale. È un punto importante, non solo per me come professional che lavora in un’agenzia. Le capacità e le tecnologie che stanno facendo la storia dei cambiamenti in corso sono molto distribuite: come detto sopra, si va dai grandi protagonisti delle piattaforme globali, con le loro dinamiche uniche (GAFA e altri leader paragonabili) ai molti fornitori di soluzioni applicative e infrastrutturali, dalle grandi holding di servizi di comunicazione e consulenza agli innumerevoli indipendenti. Questa stessa costellazione di attori a mio avviso è un vero “value network”, diverso da azienda ad azienda, ed è quindi un aspetto non secondario del modello di business con cui opera. L’esame di queste dinamiche attende un esame rigoroso ed esteso e una ricerca di casi esemplari. Rogers 2016, come WBM 2014, offre strumenti preziosi e lascia spazio a chi vorrà avviare questo lavoro.

Registro qui in appendice un’altra recensione di Rogers 2016: Kathy Anne Cowie, “Book Review—Inspiring Transformation for Decades to Come”, Global Business and Organizational Excellence, July/August 2016; è un contenuto a pagamento o consultabile solo con uno degli abbonamenti per accademici o biblioteche; io l’ho acquistato via Readcube.

Leading Digital (2014) di Westerman, Bonnet e McAfee

Ho letto Leading Digital con un misto di anticipazione e sospetto. Anticipazione perché pensavo e penso pure ora che un’analisi rigorosa, organica, estesa e articolata su come le grandi aziende tradizionali affrontano i cambiamenti portati dalla tecnologia sia una merce rara. Sospetto perché sul tema in sé ho sempre l’impressione di un déjà-vu. Venti e passa anni di business online, tra gli alti e i bassi della vecchia New Economy, fino all’ondata montata poco dopo la metà degli anni Zero, sono stati attraversati da una conversazione continua sulla questione, specie nel mondo dei servizi professionali (di cui faccio parte da tempo, lavorando per agenzie o in modo indipendente). Quella conversazione alle volte ha il sapore di una retorica, o peggio una tirata da evento trade, magari ripetuta per paradosso a chi è già convinto (preaching to the converted dicono). E allora, oltre al dibattito e all’incitazione si vorrebbe leggere una riflessione sistematica, il risultato di una ricerca, un’argomentazione che abbia fondamenti ben in vista. Questo promette e secondo me in buona parte offre davvero Leading Digital, prodotto da una collaborazione tra il MIT e Capgemini. Un lavoro a tre mani: due autori con un profilo accademico, George Westerman e Andrew McAfee (quest’ultimo anche coautore con Erik Brynjolfsson di The Second Machine Age), più un terzo, Didier Bonnet, tra i leader globali di competenza della società francese.

La fonte del testo è appunto un lavoro di ricerca condotto in tre anni, si direbbe tra 2010 e 2013 (il libro è del 2014; uso il condizionale solo perché nel testo non mi pare sia detto in modo esplicito). In primo luogo Westerman, McAfee e Bonnet, con l’aiuto di diversi collaboratori, hanno condotto circa 150 interviste in una cinquantina di grandi aziende che non hanno la tecnologia come oggetto principale di business. Questo precisa meglio la definizione generica di “azienda tradizionale” che ho usato prima. In secondo luogo è stata condotta una survey (o un survey? mah) su 391 grandi aziende in 30 Paesi (per “grandi” si intende con ricavi pari o superiori a 500 milioni di dollari). Quanto alle geografie, gli autori dichiarano di aver preso una prospettiva globale e non incentrata sugli Stati Uniti. Se i maggiori protagonisti dello sviluppo tecnologico sono infatti statunitensi, è vero invece che grandi e grandissime aziende si trovano anche in Asia e in Europa (no, non ho trovato nessun caso dall’Italia, anche se i fatturati detti sopra sono raggiunti da parecchie aziende locali, quotate e no).

Questa delimitazione alle aziende tradizionali o alle aziende che non hanno la tecnologia come principale oggetto di business è di importanza cruciale per l’intero argomento. L’idea di fondo è che siano proprio queste aziende, quelle che “fanno oltre il 90% dell’economia”, a dover essere studiate. Sono le aziende tradizionali a trovarsi di fronte al compito di dover comprendere e utilizzare le tecnologie sviluppate da altri, siano essi i leader globali della tecnologia o le moltissime startup o ex startup che propongono senza sosta nuovi prodotti e servizi incardinati su piattaforme, modelli e cultura tipici del digitale. La premessa è che questo sia un fatto inevitabile: Westerman Bonnet e McAfee non dubitano che non reagire significhi esporsi a un destino pressoché certo di obsolescenza e declino. Sempre in premessa gli autori riprendono un’analogia citata in mille luoghi: le tecnologie digitali sono la seconda Rivoluzione Industriale; nulla è in grado di sfuggire alla trasformazione in atto. Tutte le aziende in qualche modo simili a quelle fatte oggetto diretto d’indagine sono avvertite: siamo oggi a un punto dove è possibile distinguere con chiarezza chi ha affrontato questo cambiamento con successo e chi no, come lo ha fatto, ed estrarre quindi un metodo che permetta ad altri di seguire lo stesso percorso virtuoso.

En passant, questo è anche il libro che mi pare divulga al meglio i vari articoli e white paper usciti dalla collaborazione tra MIT e Capgemini sulla “digital transformation”, un’espressione entrata nel gergo di settore e di cui magari non si ricorda la formulazione originaria, o quella che mi pare abbia avuto maggiore fortuna. Già nel 2011 in un documento firmato MIT e Capgemini si leggeva per esempio questa definizione:

Digital transformation (DT) – the use of technology to radically improve performance or reach of enterprises – is becoming a hot topic for companies across the globe.

Lo riprendo non perché si debba fissare una volta per tutte una definizione di qualche tipo, ma per fare maggiore chiarezza sulla prospettiva del testo e sulla ricerca che l’ha generato. Altri hanno lavorato e lavorano in direzioni più o meno diverse. Molti spunti li ha riportati anche Marco Massarotto ormai quasi un anno fa con un post su “Digital Transformation for dummies” (che si chiude con un video dove Andrew McAfee insiste su quanto sia grande e sottostimato il cambiamento in essere). Nel primo report di Altimeter sul tema (pubblicato nel 2014) si legge per esempio di voler guardare alla trasformazione digitale attraverso “la lente” della customer experience. Il secondo report di Altimeter sullo stesso tema dà pure credito a una formulazione di parecchi anni prima di Erik Stolterman e Anna Croon Fors, dove per quel che capisco dalle poche righe nelle maschere di Google Books siamo piuttosto lontani da un interesse preminente per i risultati positivi o negativi delle aziende. La “trasformazione digitale” lì è un fenomeno che richiede uno sguardo critico, un nuovo focus per la ricerca sulle tecnologie dell’informazione – credo di aver letto un richiamo a Marcuse…

… the most crucial challenge for IS [information Systems] research today is the study of the overall effects of the ongoing digital transformation of society. The digital transformation can be understood as the changes that the digital technology causes or influences in all aspects of human life. This research challenge has to be accepted on behalf of humans, not int their role as users, customers, leaders, or any other role, but as humans having a life.

Questo nel 2003 o giù di lì. Torniamo al 2014 e basta inserire “digital transformation” nella search bar per ritrovarsi un paio di posizioni sponsorizzate di società di consulenza grandi o grandissime (Accenture per dirne una), seguite da molti risultati naturali. Come che sia. Il mio punto resta questo: tante citazioni ma non troppa ricerca a quanto sembra, per cui vale la pena vedersi per bene il testo di chi ha il primo conio, o quasi.

I risultati o i contributi più originali di questo lavoro secondo me sono tre. Il primo è una serie di modelli o categorizzazioni per definire la natura della questione, indagarne le dinamiche e ricavarne suggerimenti pratici. Il secondo è la rassegna di casi presi come oggetto d’indagine, con la raccolta delle testimonianze e degli esempi. Il terzo è una sorta di vera e propria “scoperta”, se così si può dire, sui migliori risultati di business che caratterizzano le imprese più capaci di interpretare la trasformazione digitale.

Vediamo il primo e il secondo. I modelli affrontano il tema da diversi punti di vista. Una categorizzazione che attraversa tutta l’analisi riguarda la distinzione fra le tre dimensioni indicate come customer experience, operation e business model. Sono tre piani differenti, anche se cambiamenti e innovazioni in uno dei tre possono richiedere aggiustamenti o stravolgimenti più o meno forti negli altri. I casi aziendali entrano in questa griglia di lettura: Burberry e Starbucks per esempio sono due tra i più esplorati rispetto alla customer experience. Realtà tra loro molto distanti come Asian Paints (India, vernici), Codelco (miniere, Cile) o Zara fanno da filo conduttore insieme ad altre per la discussione sulle operation. Hailo, Uber, Airbnb, Fujifilm, Zipcar, Car2go e molti altri per quella sui modelli di business. Accanto a questo modello o “a matrice” se ne colloca un altro che classifica le aziende rispetto a come stanno reagendo alla trasformazione digitale. Distinguendo tra una dimensione di competenza (“digital capabilities”) e una relativa alla capacità di agire (“leadership capabilities”) si ricavano quattro tipologie, con i “Digital Masters” nel classico quadrante in alto a destra. Qui credo si raggiungono le parti più analitiche del testo, secondo me le più interessanti, con un incrocio tra modelli e circostanze reali che a mio avviso offre materiale ricco, difficile da trovare e ben organizzato per applicare considerazioni simili ad altri mercati e ad altre aziende.  In realtà il libro propone pure una quantità di riepiloghi, checklist e un intero “playbook” conclusivo per  affrontare questo lavoro nel modo più efficace e rapido. I lettori allergici alla logica da manuale del business book potrebbero avere un qualche fastidio ma va riconosciuto che gli autori mi pare siano precisissimi nel richiamare i lavori più accademici o le fonti pubbliche che hanno utilizzato nel ricco apparato di note (a buona testimonianza del carattere rigoroso dell’indagine).

Un inciso. Nel libro ho trovato 9 menzioni del termine “advertising” e 8 di “campaign” (in verità 7 nel significato proprio della pubblicità), e una sola di “digital advertising”. Mi rendo conto che un semplice conto delle occorrenze non basta per ricavare conclusioni, ma l’impressione è che la ricerca non sembra aver fatto emergere una qualche linea esemplare sul modo di fare pubblicità da parte dei leader, preso come un focus a parte. Mi pare anzi che si dia per scontato un impiego intelligente degli strumenti di digital advertising, ma nel quadro di un movimento più ampio, complesso e innervato nella realtà delle aziende – in altre parole, dove la trasformazione è all’opera il dialogo avviene anche questi canali, ma non è certo il ricorso in modo isolato alle allocazioni di budget da un canale all’altro che fa la differenza.

Passiamo al terzo risultato. Qui la parte empirica della ricerca, combinata con il modello sulle tipologie d’azienda, produce una conclusione netta. I “Digital Masters” fanno più profitti e più ricavi degli altri.

[…] Digital Masters outperform their peers. Our work indicates that the masters are 26 percent more profitable than their average competitors. They generate 9 percent more revenue with their existing physical capacity and drive more efficiency in their existing products and processes.

Anche se gli autori precisano che la loro analisi indica solo una correlazione e non un rapporto di causalità, è evidente che questi sono numeri importanti (il 10% di un fatturato da 1 miliardo, etc.). L’argomento insomma è che c’è un’enorme opportunità da cogliere. E coglierla è alla portata di tutte le aziende che intendono farlo. Non occorre essere in Silicon Valley, non servono centinaia di sviluppatori, non serve la visione unica dei pionieri. Servono invece volontà e mezzi per affrontare una trasformazione che sarà più o meno radicale, in funzione di quanto è difficile o meno il punto di partenza, e di quanto si è disposti a riconoscerlo con una valutazione onesta e critica.

Prima di chiudere, c’è un ultimo argomento da riprendere. Abbiamo detto che la ricerca indica una grande opportunità. E potrebbe bastare per un richiamo all’azione. Ma c’è un’altra traccia che corre in parallelo. Westerman Bonnet e McAfee dicono pure che in realtà c’è da muoversi comunque, perché la trasformazione, lo si voglia o no, è appena iniziata, o forse deve ancora cominciare. Non sto esagerando io ora. Lo scrivono proprio a più riprese.

We ain’t seen nothin’ yet.

Non è un punto banale, e secondo me fa saltar fuori la natura per certi versi un po’ paradossale della ricerca, o del suo oggetto. La forza delle tecnologie e delle piattaforme sta iniziando ora a mostrare i suoi effetti, sulla società nel suo insieme, sulle persone e sulle “aziende tradizionali” che sono al centro di questo lavoro.  Se è così, la ragione per muoversi allora non è tanto quell’opportunità su ricavi e profitti, ma la necessità di sopravvivere, o di non essere spazzati via da altri.  Qui si aprirebbe spazio per un lavoro dedicato anche solo a questa prospettiva. Quali sono le aziende o i business tradizionali che provano il punto? Certo, si cita Kodak, si citano i taxi, e poi? Parlare di settori in modo convenzionale, o di categorie che non descrivono più nulla di preciso (“le telecomunicazioni”, “la pubblicità”, “i giornali”, etc.) serve a poco, credo. Pure qui secondo me ci sarebbe bisogno di rassegne organizzate, di più casi importanti, di modelli e di ricerca empirica. Dopo tanti anni di conversazioni sul cambiamento, dite voi se non è paradossale che manchi ancora una grande pars destruens da mettere in biblioteca. Se c’è, ditemi subito dov’è che la ordino (spero via Amazon Prime).

ubicomp@Ikea (ok, diciamo TV@Ikea)

Titolo overambitious per una volta ma qua e là dal video sotto si capisce che Ikea con questo lancio sta andando un po’ oltre l’aggiunta di un prodotto al suo mitico catalogo. Lungo post in inglese.

Su Ikea ha pubblicato di recente un bel post anche il mio amico Adriano: Generazione componibile, o della pervasività Ikea.

Letture obbligatorie per il corso di Mobile Industry 2009-2010

Letture obbligatorie, tipo quelle degli esami, vecchissima maniera. Scherzo. In ogni caso, nota di servizio per chi non li avesse ancora passati. In questi giorni ci sono due lunghi post su Nokia che, mi pare, stanno rimbalzando in giro come palline da flipper. Impossibile perderli se si ha un qualche interesse nelle faccende mobile & wireless.

Picture by Jorge Barrios from Wikimedia Commons, Public Domain

In ordine di tempo: il 21 Tomi Ahonen, uno degli esperti più celebri e rispettati dell’intero settore, ex Nokia, finlandese, ha pubblicato uno dei suoi tipici lunghi, lunghissimi post a proposito del CEO dell’azienda (grande confusione sotto il cielo: vedi FT oggi per dire).

Tomi Ahonen: Obituary for OPK: Wall Street is a Cruel Mistress – Nokia searching for CEO

Chi dovesse essere meno addentro la cosa potrebbe apprezzare la breve introduzione di Mobile Industry Review, che lo ha ripostato integralmente.

Il giorno dopo l’inglese The Register ha pubblicato una sorta di lungo e articolato stralcio di intervista con Juhani Risku, ex Nokia, finlandese, autore di un libro su Nokia disponibile per ora solo nell’originale – finlandese.

The Register: Rescuing Nokia? A former exec has a radical plan

Come tutte le letture obbligatorie che si rispettino, non si fanno fuori in 5 minuti eh…

In memoriam: William Mitchell

William Mitchell, architetto, urbanista, professore al MIT, tra i maggiori studiosi delle trasformazioni della vita urbana e delle forme delle città sotto l’influenza delle tecnologie digitali, è mancato a 65 anni (vedi la notizia e il resoconto biografico ufficiale del MIT).

Ritratto di William Mitchell

Ho scoperto il suo nome molto tardi, tra 2004 e 2005, come colui che tra le altre cose aveva coniato l’espressione e l’idea dei “Living Labs” — il resto nella versione inglese di questo post.

Mi chiedo se sia mai stato tradotto in italiano — o se ora ci penserà qualcuno.

Foto: http://newsoffice.mit.edu/2010/obit-mitchell

Trento, “multinazionale tascabile della ricerca” (Il Sole)

Il fatto è che sul mercato della ricerca, Trento sta diventando un hub internazionale, una multinazionale tascabile, per usare la definizione coniata da Mediobanca per le medie imprese italiane in grado di competere su scala globale. È piccola, ma aperta alle reti lunghe della globalizzazione. Meticcia per posizione e vocazione.

http://www.ilsole24ore.com/dossier/Economia%20e%20Lavoro/2010/start-up-italia/

Rilancio un pezzo del Sole 24 Ore su Trento e la ricerca, con un po’ di evidenza per la bella nota sul carattere “meticcio” del luogo. Potrebbe apparire strano forse, specie se si pensa al profilo severo della città, a quel tanto di rigidità della provincia (detto con la massima comprensione: ci sono nato e cresciuto in provincia). Ora non voglio farla lunga con le associazioni più ovvie, in primo luogo la vicinanza, lo scambio, gli scontri con la cultura e le nazioni di lingua tedesca. Ma non è detto che non ci sia un legame con la capacità attuale di essere più aperti e internazionali di cui parla l’articolo. Di mio l’ho sperimentato in questi mesi grazie ai progetti con gli amici e colleghi di Create-Net (a partire da Vertigo).

Design research = chiedere ai clienti cosa vogliono?

Ah, la domanda topica che risuona troppe volte nelle sale focus: “che cosa vorresti?” Sguardo smarrito dei “soggetti” più sinceri, o logorrea improvvisa nei casi peggiori. “Chiedere ai clienti cosa vogliono”, specie quando si parla di cose future, non è detto che sia un’idea brillante. Basta il senso comune per capire che è difficile anticipare la forma o il razionale di un nuovo prodotto o servizio, specie se si cerca una grande novità, una rottura (disruptive innovation nel gergo… wow). Fare “design research”, fare ricerca per il progetto, e coinvolgere le persone in questa ricerca, *non* vuol dire questo. Un articolo di un’accademica appena uscito sul New York Times fa il punto sulla faccenda. L’ho trovato da Bruce Nussbaum, che lo riprende puntando anche al breve saggio già molto discusso di Donald Norman su innovazione radicale, design research e tecnologia. Vedi il post in inglese.

Contaminazione, design e tecnologia: report da UXConference, Lugano

Nota: questo l’ho scritto per Infoservi, che a sua volta l’ha girato sul blog di Working Capital. Ringraziamenti per l’occasione e tutto: Alberto D’Ottavi (Infoservi rulez), Luca Mascaro e il team di Sketchin (link qui subito sotto) e Nicola per le chiacchiere molto piacevoli durante la giornata (abbiamo fatto i compagni di banco).

“Contaminazione” è stata la parola chiave, anzi la password di UX conference, appuntamento promosso dalla Sketchin di Luca Mascaro lo scorso giovedì 3 dicembre a Lugano. Contaminazione qui vuol dire scambio, su piani diversi e combinati: scambio tra i designer e i “grigi personaggi del marketing”  (kudos per l’autoironia di Stefano Adami, tra i relatori), o tra i clienti e gli sviluppatori (presenti in forze, almeno a giudicare dalle grandi risate per le provocazioni di Francesco Cirillo, metodiagili.it), ma ancora di più scambio tra utenti e aziende, gli utenti al centro della user experience o UX.

Inciso: a dirla tutta, anche se UX è un’espressione molto diffusa nell’industria e nell’accademia, più che di “utenti” sarebbe meglio parlare di “persone” o “individui”, tenendosi lontani dal primato implicito di macchine e sistemi nascosto nell’espressione user (un argomento sviluppato da Liam Bannon nel lontano 1991: “the human is often reduced to being another system component”; link al paper di riferimento).

Come che sia, si diceva di contaminazione, user experience e aziende: visto che prodotti e servizi di qualunque tipo finiscono pur sempre nelle mani delle persone, lavorare sulla user experience forse può spingere davvero le organizzazioni a far circolare idee ed energie tra una funzione e l’altra, a far prendere aria ai silos dei dipartimenti, a fare innovazione, non per il gusto della novità, ma perché di questi tempi “se non si innova si muore” – così Massimo Pettiti, GloBrain, primo keynote speaker della conferenza.

La parabola dei servizi mobile and wireless, tracciata appunto da Massimo, dice qualcosa al riguardo: mentre dieci anni fa l’italianissima Omnitel sperimentava i primi portali mobili, all’epoca in cui l’industria europea aveva l’orgoglio e la spinta del primato sul GSM, oggi sui tavoli pullulano gli iPhone, e si discute della resilience di Nokia o dell’impatto di Android… E’ girato il vento. Da qua però si riparte per cercarsi opportunità. Tra i casi citati: mobc3, delivery multiplatform di contenuti e altro ancora (disclaimer: amici comuni — di Massimo, miei e di Infoservi) e gli austriaci di wikitude, applicazione iPhone di AR-Augmented Reality.

Dall’industria si è passati poi a una prospettiva più accademica e scientifica. Prima è arrivato Stefano Bussolon, HyperLabs, con un intervento sul design motivazionale. Di fronte a una Rete che ora sembrerebbe vuota senza le parole, le foto e le storie delle persone, interrogarsi per esempio sui motivi che spingono a editare le voci di Wikipedia (“odio veder scritte delle boiate”, una risposta dal pubblico), serve a illustrare un impianto teorico nel quale la progettazione e la valutazione delle tecnologie tengono sia dei valori intrinseci di tipo estetico ed emotivo, sia di quelli utilitaristici e valoriale, sul piano individuale e sociale. Stefano non me ne voglia per la semplificazione brutale: per capire meglio di che si parla rimando ai suoi articoli e a quelli citati di Gianandrea Giacoma e Davide Casali.

A seguire Monica Landoni e Marco Pasch, Università della Svizzera Italiana, hanno parlato di DEDUCE, un progetto di ricerca dedicato a creare modelli e strumenti per far entrare le emozioni in modo nuovo e adeguato nelle valutazioni con gli utenti, andando oltre il piano puramente funzionale. Le emozioni sono quelle della vita di tutti i giorni, paura, soddisfazione, felicità, e così via, cristallizzate da un team di KTH in un set di oggetti originali, una sorta di sculture astratte, pensate per la manipolazione diretta e non per la teca del museo (questa parte del lavoro è nata nell’ambito di Humaine, una “rete di eccellenza” sostenuta dalla Commissione Europea). DEDUCE ora sta portando questi oggetti nelle aule delle scuole per sviluppare la ricerca con i bambini. Sarà molto interessante scoprire che ne verrà fuori.

Le interfacce “gestuali” (tento di tradurre gestural interfaces) sono state anche al centro della presentazione di Elisa Rubegni, sempre dell’Università della Svizzera Italiana. Richiamandosi a un artefatto antico e comune come la fontana della piazza pubblica, Elisa ha reso conto delle ricerche del progetto Wi-Roni attorno a un prototipo di totem interattivo per un parco nei pressi di Siena; il totem permette un’interazione naturale ed espressiva messa a punto attraverso sperimentazioni condotte con le persone a cui è destinato.

La platea però si è scaldata soprattutto quando è salito sul palco Francesco Cirillo, inventore tra l’altro della “tecnica del pomodoro” (e c’era davvero un timer-pomodoro a battere il tempo di tutti i relatori). Francesco ha attaccato sbattendo in proiezione una schermata di codice tutt’altro che agile e chiaro, il bersaglio tipico della Campagna Anti If, ed è andato avanti saltando con molta efficacia tra la discussione seria (differenza tra software e tradizionale prodotto industriale, principi e valori del design emergente, un esempio live di applicazione a un caso di sviluppo) e i quadretti alla Dilbert sulla vita quotidiana di chi fa il codice (“Avete fatto l’analisi? Sì, un minimo di analisi”, “Facile=la prima cosa che mi viene in mente” e via di questo passo). Uno dei punti cruciali è la consapevolezza e la gestione della complessità: in questa visione, la linea guida fondamentale è abbassare la complessità del sistema, diminuendo la complessità di ogni nuova funzione da introdurre e muovendosi secondo una logica incrementale in grado di offrire risultati significativi anche molto presto nel ciclo di sviluppo. Uno strumento essenziale in questo senso sono le user stories, le narrative costruite con le persone a cui è destinato il sistema, prese come uno snodo centrale del dialogo tra il team di sviluppo e i suoi interlocutori. Mi sarebbe piaciuto andare più a fondo sull’argomento, come ho tentato con un breve scambio con Francesco nelle domande finali, ma il tempo era poco (il temibile pomodoro era già suonato da un po’ — comunque prima della fine della presentazione, Francesco docet).

Luca Mascaro ha aggiunto una prospettiva importante sul tema: il mondo UX si è avvicinato in tempi relativamente recenti all’approccio agile, avendo sviluppato metodi e tecniche in contesti dominati di norma dai tradizionali approcci a cascata (waterfall) o iterativi. Si tratta quindi di dare forma a modellli e pratiche di agile UX (suggerisco per esempio l’articolo di Hugh Beyer, Karen Holtzblatt e Lisa Baker sul Rapid Contextual Design).

L’apertura della cultura UX peraltro è questione più generale: in un intervento registrato Federico Fasce e Marina Rossi (Urustar) hanno mostrato come metodi e tecniche di progettazione del game design possano trovare applicazione nell’ambito più ampio della progettazione per soluzioni, social network e servizi online.

Lo spirito aperto e pratico della contaminazione, il piacere, il divertimento e il senso dello scambio è forse riuscito a intercettarli al meglio Leandro Agrò (WideTag, blogger su Leeander) specie quando ha iniziato a illustrare “l’Internet delle cose” (Internet of Things) con hacking giocosi come iCrocco, un piccolo coccodrillo USB, o l’operazione “a cuore aperto” sul banco del garage per trasformare un prototipo di iCrocco in un “iTopo”, un vero pupazzetto Ikea a forma di topo mutato in un electronic pet (“Net & Pet”, tecnologia ed emozioni, ha detto Dario Violi in video; e va ripreso anche l’omaggio all’Ikea hacking).

Su un piano diverso, un mix analogo di design, ingegneria e  innovazione si riconosce anche in OpenSpime, “hardware sociale” per rilevare i livelli di CO2 nell’ambiente. L’integrazione della Rete nel mondo reale dovrebbe far fiorire un intero universo di applicazioni capaci di sfruttare gli enormi flussi di dati generati dalla sensoristica a bordo dei dispositivi più diffusi (di nuovo, basta pensare agli smart phone); il passo successivo è strutturare questi flussi in processi di raccolta massivi e distribuiti, costruendo su queste basi informazioni e conoscenze per una migliore organizzazione dei servizi e della vita quotidiana.

A proposito di quotidiano, Fabio Sergio (Frog Design, blog e altro su Freegorifero)  ha presentato una rassegna molto ricca e affascinante su corpo e tecnologia, un grande tema sia della cultura pop (Singing the body electric, il titolo della presentazione, cita quello di un album degli anni Settanta dei Weather Report) sia di quella alta (nella prima slide c’era l’Uomo Leonardesco!). Dalla macchina medicale del Dr.McCoy di Star Trek all’occhio elettronico di Rob “Eyeborg” Spence, passando per i più sofistificati supporti auditivi oggi disponibili sul mercato (Lyric Hearing tra gli altri), e molte altre sperimentazioni di punta, Fabio ha argomentato sulle possibilità dischiuse da queste “ombre di dati”, information shadows (Mike Kuniavsky, ex Adaptive Path, ora ThingM) prodotte dal nostro corpo, sia esso “sano” o affetto da un qualche disturbo, nel momento in cui è innervato dalle tecnologie digitali. Le reti sociali e le loro dinamiche di osservazione, partecipazione e controllo potrebbero far nascere forme originali di supporto virtuoso e collaborativo, simili a quelle che si riscontrano già oggi sui social network dedicati o promossi dagli stessi pazienti. E se è vero che una generica preoccupazione sulla privacy può sembrare fuori luogo (Fabio ha minacciato scherzose ritorsioni contro chi avesse sollevato il punto – ritorsioni fisiche, non a caso), è certo che per diffondere queste tecnologie bisognerà rispondere alle ansie che sollevano e affrontare un grande cambiamento culturale nelle organizzazioni che dovranno promuoverle (medici, cliniche, burocrazie, regolatori).

Cambiamento e gestione del cambiamento (change management) sono stati del resto il punto di arrivo della presentazione di Gianluca Brugnoli, Politecnico di Milano e collega di Fabio in Frog Design. Il design inteso come la progettazione dei processi dal punto di vista dell’utente richiede che ingegneri e uomini di business, magari proprio attraverso la mediazione dei designer, ritrovino un ambito comune di collaborazione (un tema discusso anche da Memi Beltrame, sempre tra i relatori, interaction designer a Liip). Sviluppare servizi utili e soddisfacenti per le persone, servizi di qualità, ha detto Gianluca, richiede che l’intervento del progetto sia sul piano “duro” e di sostanza dei processi e delle tecnologie, e non solo su quello dei touch points, i punti di contatto fisico, interattivo o meno, su cui si è concentrato in particolare il design dei servizi (service design).

Ora, se c’è un ambito dove vorremmo vedere di più all’opera questo tipo di cultura è di nuovo quello dei servizi mobile and wireless, come ha riconosciuto per primo Alessandro Galetto (3, blogger su Baloss e Dotdust). Divise tra l’incubo di restare schiacciate nella pura gestione del traffico dati (“bit-pipe nightmare”), e l’ambizione di guidare le trasformazioni della mobilità, le telco, ha riconosciuto Alessandro, si dibattono tra l’attenzione ai servizi di massa, che fanno ancora grandi risultati economici, e la necessità di innovare per gli utenti già immersi nella mobile Internet (nota di costume non sponsorizzata da Apple: la quantità di iPhone in sala, come ha notato Leandro, era piuttosto impressionante). Una delle sfide più calde in questo senso è ripensare i social network alla luce della mobilità, ritrovando magari quella capacità di innovare radicalmente che avrà stupito i giornalisti presenti nel 1973 alla prima dimostrazione di una telefonata mobile, evocata da Alessandro all’inizio del suo intervento. Me li immagino mentre fanno “Wow!” di fronte a Martin Cooper, pensando ai non pochi ricchi executive che se ne sarebbero dotati negli anni a venire. Oggi che il telefono serve a ben altro, dalla foto “aumentata” della piazza d’arte al massaggio continuo della nostra rete sociale, credo che faranno bene a tutti altre iniezioni massicce di cultura del progetto, con dosi abbondanti di UX — e buona memoria del fatto che si sta parlando di persone, prima che di users.