Postato il 26 settembre 2017 sulla pagina Facebook di Alberto D’Ottavi , a tre anni dalla sua scomparsa.
Ho memoria di non so quante cose dette. Ricordo come venivano fuori, come tornavano, come suonavano, come si leggevano e suonavano lo stesso anche se erano testo – spesso erano testo. Poi siccome ci si ritrovava al telefono, o di persona, il testo tornava per aria, tipo nel macello en plein air, voce, fumo, rumore di Milano attorno, ma che casino c’è in questo posto.
Alberto ha parlato a un sacco di persone e per tanti di loro è ancora lì, in quella volta che parlammo, e grazie a lui ho scoperto, o mi sono reso conto. Conversazioni che si ricordavano, per attaccamento immediato, fascinazione, o refrattarietà, meno nel mezzo immagino. Teneva il discorso o il silenzio soffocato in quel modo suo: una specie di timido che poi tirava l’affondo e magari andava sopra le righe; guardava dritto attento dei quarti d’ora, fregandosi la barba, per poi saltare su con una tirata a sorpresa, brillante, illuminante o violenta persino e la risata sardonica e scusa-scusa-scusa ho sparato ma non volevo davvero. Una scena alla Tarantino come quelle delle caricature sui social ma era vero e pure divertente, e certo alle volte no, ma più spesso sì. Grande intelligenza, chiaro, con quella frenesia del capire subito e prima (era la cifra del giornalista e quindi in parte mestiere, tecnica; poi era istinto, attitudine, impazienza, irrequietezza, facilità alla noia, curiosità – un dono prezioso, è stato scritto). Ma la velocità era solo un aspetto: alla fine era un culo di pietra, serio, sgobbone, non gli riusciva proprio tirarla via facile.
Ho pensato, quest’anno voglio scrivere qualcosa qui. “Bella cazzata” mi sono risposto. D’altro canto questo sarebbe stato lo scambio. Poca compiacenza. Che cosa buffa e per certi versi sbagliata: l’amicizia dovrebbe o potrebbe essere consolatoria, no? Almeno un poco. Non eravamo mica portati. E poi questo è un posto, era di certo un suo posto. Quando Facebook ci regalò o restituì la timeline mi misi a scanalare indietro indietro fino a trovare Alberto nella foto che guarda in su e scrive, Welcome to this crazy place. Batteva sempre in testa per quel rimbalzo pazzo tra vicino e distante che attraversava di continuo con gli altri, i vicinissimi e i lontani, online e offline, in un andare e venire che mi pareva avesse sempre presente alla perfezione, e non capivo mai come gli riusciva, glielo invidiavo. Ci finiva dentro di continuo e ci tornava sopra per capirlo, o perché lo voleva, sentiva che gli serviva, e poi tutta la strada al contrario.
Ora mi dico che molti ricordano il venerdì di tre anni fa e i tre giorni precedenti e quello che c’è stato prima. Molti sono qui. Riguardiamo le foto, facciamo play sui video, rileggiamo i pezzi. Guardiamo con fastidio o non vogliamo più guardare la notifica fuori posto, l’automatismo, che ci puoi fare. Buttiamo giù due righe, mettiamo like, sad, love, non so; è bizzarro e inadeguato – bello forse è un’esagerazione, ma non è neppure male, è una follia minore, una normalità incerta; è un mondo che sentiva e capiva. Lo raccontava da maestro: parecchi tra noi tengono stretto in tasca qualche pezzo di lezione.
Questo comunque me lo avrebbe fatto riscrivere.