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Leading Digital (2014) di Westerman, Bonnet e McAfee

Ho letto Leading Digital con un misto di anticipazione e sospetto. Anticipazione perché pensavo e penso pure ora che un’analisi rigorosa, organica, estesa e articolata su come le grandi aziende tradizionali affrontano i cambiamenti portati dalla tecnologia sia una merce rara. Sospetto perché sul tema in sé ho sempre l’impressione di un déjà-vu. Venti e passa anni di business online, tra gli alti e i bassi della vecchia New Economy, fino all’ondata montata poco dopo la metà degli anni Zero, sono stati attraversati da una conversazione continua sulla questione, specie nel mondo dei servizi professionali (di cui faccio parte da tempo, lavorando per agenzie o in modo indipendente). Quella conversazione alle volte ha il sapore di una retorica, o peggio una tirata da evento trade, magari ripetuta per paradosso a chi è già convinto (preaching to the converted dicono). E allora, oltre al dibattito e all’incitazione si vorrebbe leggere una riflessione sistematica, il risultato di una ricerca, un’argomentazione che abbia fondamenti ben in vista. Questo promette e secondo me in buona parte offre davvero Leading Digital, prodotto da una collaborazione tra il MIT e Capgemini. Un lavoro a tre mani: due autori con un profilo accademico, George Westerman e Andrew McAfee (quest’ultimo anche coautore con Erik Brynjolfsson di The Second Machine Age), più un terzo, Didier Bonnet, tra i leader globali di competenza della società francese.

La fonte del testo è appunto un lavoro di ricerca condotto in tre anni, si direbbe tra 2010 e 2013 (il libro è del 2014; uso il condizionale solo perché nel testo non mi pare sia detto in modo esplicito). In primo luogo Westerman, McAfee e Bonnet, con l’aiuto di diversi collaboratori, hanno condotto circa 150 interviste in una cinquantina di grandi aziende che non hanno la tecnologia come oggetto principale di business. Questo precisa meglio la definizione generica di “azienda tradizionale” che ho usato prima. In secondo luogo è stata condotta una survey (o un survey? mah) su 391 grandi aziende in 30 Paesi (per “grandi” si intende con ricavi pari o superiori a 500 milioni di dollari). Quanto alle geografie, gli autori dichiarano di aver preso una prospettiva globale e non incentrata sugli Stati Uniti. Se i maggiori protagonisti dello sviluppo tecnologico sono infatti statunitensi, è vero invece che grandi e grandissime aziende si trovano anche in Asia e in Europa (no, non ho trovato nessun caso dall’Italia, anche se i fatturati detti sopra sono raggiunti da parecchie aziende locali, quotate e no).

Questa delimitazione alle aziende tradizionali o alle aziende che non hanno la tecnologia come principale oggetto di business è di importanza cruciale per l’intero argomento. L’idea di fondo è che siano proprio queste aziende, quelle che “fanno oltre il 90% dell’economia”, a dover essere studiate. Sono le aziende tradizionali a trovarsi di fronte al compito di dover comprendere e utilizzare le tecnologie sviluppate da altri, siano essi i leader globali della tecnologia o le moltissime startup o ex startup che propongono senza sosta nuovi prodotti e servizi incardinati su piattaforme, modelli e cultura tipici del digitale. La premessa è che questo sia un fatto inevitabile: Westerman Bonnet e McAfee non dubitano che non reagire significhi esporsi a un destino pressoché certo di obsolescenza e declino. Sempre in premessa gli autori riprendono un’analogia citata in mille luoghi: le tecnologie digitali sono la seconda Rivoluzione Industriale; nulla è in grado di sfuggire alla trasformazione in atto. Tutte le aziende in qualche modo simili a quelle fatte oggetto diretto d’indagine sono avvertite: siamo oggi a un punto dove è possibile distinguere con chiarezza chi ha affrontato questo cambiamento con successo e chi no, come lo ha fatto, ed estrarre quindi un metodo che permetta ad altri di seguire lo stesso percorso virtuoso.

En passant, questo è anche il libro che mi pare divulga al meglio i vari articoli e white paper usciti dalla collaborazione tra MIT e Capgemini sulla “digital transformation”, un’espressione entrata nel gergo di settore e di cui magari non si ricorda la formulazione originaria, o quella che mi pare abbia avuto maggiore fortuna. Già nel 2011 in un documento firmato MIT e Capgemini si leggeva per esempio questa definizione:

Digital transformation (DT) – the use of technology to radically improve performance or reach of enterprises – is becoming a hot topic for companies across the globe.

Lo riprendo non perché si debba fissare una volta per tutte una definizione di qualche tipo, ma per fare maggiore chiarezza sulla prospettiva del testo e sulla ricerca che l’ha generato. Altri hanno lavorato e lavorano in direzioni più o meno diverse. Molti spunti li ha riportati anche Marco Massarotto ormai quasi un anno fa con un post su “Digital Transformation for dummies” (che si chiude con un video dove Andrew McAfee insiste su quanto sia grande e sottostimato il cambiamento in essere). Nel primo report di Altimeter sul tema (pubblicato nel 2014) si legge per esempio di voler guardare alla trasformazione digitale attraverso “la lente” della customer experience. Il secondo report di Altimeter sullo stesso tema dà pure credito a una formulazione di parecchi anni prima di Erik Stolterman e Anna Croon Fors, dove per quel che capisco dalle poche righe nelle maschere di Google Books siamo piuttosto lontani da un interesse preminente per i risultati positivi o negativi delle aziende. La “trasformazione digitale” lì è un fenomeno che richiede uno sguardo critico, un nuovo focus per la ricerca sulle tecnologie dell’informazione – credo di aver letto un richiamo a Marcuse…

… the most crucial challenge for IS [information Systems] research today is the study of the overall effects of the ongoing digital transformation of society. The digital transformation can be understood as the changes that the digital technology causes or influences in all aspects of human life. This research challenge has to be accepted on behalf of humans, not int their role as users, customers, leaders, or any other role, but as humans having a life.

Questo nel 2003 o giù di lì. Torniamo al 2014 e basta inserire “digital transformation” nella search bar per ritrovarsi un paio di posizioni sponsorizzate di società di consulenza grandi o grandissime (Accenture per dirne una), seguite da molti risultati naturali. Come che sia. Il mio punto resta questo: tante citazioni ma non troppa ricerca a quanto sembra, per cui vale la pena vedersi per bene il testo di chi ha il primo conio, o quasi.

I risultati o i contributi più originali di questo lavoro secondo me sono tre. Il primo è una serie di modelli o categorizzazioni per definire la natura della questione, indagarne le dinamiche e ricavarne suggerimenti pratici. Il secondo è la rassegna di casi presi come oggetto d’indagine, con la raccolta delle testimonianze e degli esempi. Il terzo è una sorta di vera e propria “scoperta”, se così si può dire, sui migliori risultati di business che caratterizzano le imprese più capaci di interpretare la trasformazione digitale.

Vediamo il primo e il secondo. I modelli affrontano il tema da diversi punti di vista. Una categorizzazione che attraversa tutta l’analisi riguarda la distinzione fra le tre dimensioni indicate come customer experience, operation e business model. Sono tre piani differenti, anche se cambiamenti e innovazioni in uno dei tre possono richiedere aggiustamenti o stravolgimenti più o meno forti negli altri. I casi aziendali entrano in questa griglia di lettura: Burberry e Starbucks per esempio sono due tra i più esplorati rispetto alla customer experience. Realtà tra loro molto distanti come Asian Paints (India, vernici), Codelco (miniere, Cile) o Zara fanno da filo conduttore insieme ad altre per la discussione sulle operation. Hailo, Uber, Airbnb, Fujifilm, Zipcar, Car2go e molti altri per quella sui modelli di business. Accanto a questo modello o “a matrice” se ne colloca un altro che classifica le aziende rispetto a come stanno reagendo alla trasformazione digitale. Distinguendo tra una dimensione di competenza (“digital capabilities”) e una relativa alla capacità di agire (“leadership capabilities”) si ricavano quattro tipologie, con i “Digital Masters” nel classico quadrante in alto a destra. Qui credo si raggiungono le parti più analitiche del testo, secondo me le più interessanti, con un incrocio tra modelli e circostanze reali che a mio avviso offre materiale ricco, difficile da trovare e ben organizzato per applicare considerazioni simili ad altri mercati e ad altre aziende.  In realtà il libro propone pure una quantità di riepiloghi, checklist e un intero “playbook” conclusivo per  affrontare questo lavoro nel modo più efficace e rapido. I lettori allergici alla logica da manuale del business book potrebbero avere un qualche fastidio ma va riconosciuto che gli autori mi pare siano precisissimi nel richiamare i lavori più accademici o le fonti pubbliche che hanno utilizzato nel ricco apparato di note (a buona testimonianza del carattere rigoroso dell’indagine).

Un inciso. Nel libro ho trovato 9 menzioni del termine “advertising” e 8 di “campaign” (in verità 7 nel significato proprio della pubblicità), e una sola di “digital advertising”. Mi rendo conto che un semplice conto delle occorrenze non basta per ricavare conclusioni, ma l’impressione è che la ricerca non sembra aver fatto emergere una qualche linea esemplare sul modo di fare pubblicità da parte dei leader, preso come un focus a parte. Mi pare anzi che si dia per scontato un impiego intelligente degli strumenti di digital advertising, ma nel quadro di un movimento più ampio, complesso e innervato nella realtà delle aziende – in altre parole, dove la trasformazione è all’opera il dialogo avviene anche questi canali, ma non è certo il ricorso in modo isolato alle allocazioni di budget da un canale all’altro che fa la differenza.

Passiamo al terzo risultato. Qui la parte empirica della ricerca, combinata con il modello sulle tipologie d’azienda, produce una conclusione netta. I “Digital Masters” fanno più profitti e più ricavi degli altri.

[…] Digital Masters outperform their peers. Our work indicates that the masters are 26 percent more profitable than their average competitors. They generate 9 percent more revenue with their existing physical capacity and drive more efficiency in their existing products and processes.

Anche se gli autori precisano che la loro analisi indica solo una correlazione e non un rapporto di causalità, è evidente che questi sono numeri importanti (il 10% di un fatturato da 1 miliardo, etc.). L’argomento insomma è che c’è un’enorme opportunità da cogliere. E coglierla è alla portata di tutte le aziende che intendono farlo. Non occorre essere in Silicon Valley, non servono centinaia di sviluppatori, non serve la visione unica dei pionieri. Servono invece volontà e mezzi per affrontare una trasformazione che sarà più o meno radicale, in funzione di quanto è difficile o meno il punto di partenza, e di quanto si è disposti a riconoscerlo con una valutazione onesta e critica.

Prima di chiudere, c’è un ultimo argomento da riprendere. Abbiamo detto che la ricerca indica una grande opportunità. E potrebbe bastare per un richiamo all’azione. Ma c’è un’altra traccia che corre in parallelo. Westerman Bonnet e McAfee dicono pure che in realtà c’è da muoversi comunque, perché la trasformazione, lo si voglia o no, è appena iniziata, o forse deve ancora cominciare. Non sto esagerando io ora. Lo scrivono proprio a più riprese.

We ain’t seen nothin’ yet.

Non è un punto banale, e secondo me fa saltar fuori la natura per certi versi un po’ paradossale della ricerca, o del suo oggetto. La forza delle tecnologie e delle piattaforme sta iniziando ora a mostrare i suoi effetti, sulla società nel suo insieme, sulle persone e sulle “aziende tradizionali” che sono al centro di questo lavoro.  Se è così, la ragione per muoversi allora non è tanto quell’opportunità su ricavi e profitti, ma la necessità di sopravvivere, o di non essere spazzati via da altri.  Qui si aprirebbe spazio per un lavoro dedicato anche solo a questa prospettiva. Quali sono le aziende o i business tradizionali che provano il punto? Certo, si cita Kodak, si citano i taxi, e poi? Parlare di settori in modo convenzionale, o di categorie che non descrivono più nulla di preciso (“le telecomunicazioni”, “la pubblicità”, “i giornali”, etc.) serve a poco, credo. Pure qui secondo me ci sarebbe bisogno di rassegne organizzate, di più casi importanti, di modelli e di ricerca empirica. Dopo tanti anni di conversazioni sul cambiamento, dite voi se non è paradossale che manchi ancora una grande pars destruens da mettere in biblioteca. Se c’è, ditemi subito dov’è che la ordino (spero via Amazon Prime).